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Una delle conseguenze della crisi è che molti professionisti decidono di chiudere lo studio professionale e lavorare da casa per risparmiare sui costi dell’affitto. I costi di locazione degli immobili sono diventati insostenibili (soprattutto quelli relativi agli immobili ad uso ufficio delle grandi città) e i professionisti sono costretti, loro malgrado, a ridurre i costi, dal momento che la libera professione oggi non garantisce introiti certi e regolari. Il fisco però è sempre in agguato.
E questa volta a essere preso di mira è un avvocato che esercita la libera professione presso la propria abitazione e che collabora con uno studio legale la cui organizzazione è riferibile ad altri professionisti. L’avvocato riceve una cartella di pagamento emessa ai sensi dell’articolo 36 bis del DPR 600/73 con cui l’Amministrazione finanziaria chiede il pagamento di una somma di denaro per omesso versamento dell’IRAP.
Il professionista impugna la cartella di pagamento davanti la Commissione Tributaria Provinciale di Torino, che respinge l’impugnazione con una sentenza che viene confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte.
L’avvocato, che aveva promiscuamente adibito la propria abitazione a studio professionale, lavorava anche per conto di uno studio legale senza nessun vincolo di orario e di esclusiva. L’esistenza di spese sostenute per lo svolgimento dell’attività professionale e l’uso di beni strumentali, secondo i giudici, dimostra l’esistenza di un’organizzazione autonoma finalizzata alla produzione di reddito, con conseguente assoggettabilità all’IRAP.
Il professionista però non ci sta! E decide di ricorrere in Cassazione. I giudici della Suprema Corte invece, a sorpresa, annullano senza rinvio la decisione della Commissione Tributaria Regionale accogliendo il ricorso del professionista (sentenza n. 16941/2015). Questa la motivazione. Il contribuente non ha uno studio proprio ma esercita la libera professione presso la propria abitazione. Inoltre, il professionista è solo collaboratore di altro studio, la cui eventuale organizzazione è irrilevante e ha costi di gestione che, se valutati nella loro specificità, non denotano un’autonoma organizzazione tale da rendere il contribuente assoggettabile a IRAP. In particolare, nella sentenza si legge che in tema di IRAP, il presupposto per l’applicazione dell’imposta, secondo la previsione del D.Lgs 15 dicembre 1997, n. 446, articolo 2, è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, che ricorre qualora il contribuente sia il responsabile dell’organizzazione ed impieghi beni strumentali, eccedenti per quantità o valore il minimo generalmente ritenuto indispensabile per l’esercizio della professione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. L’esistenza di un’autonoma organizzazione non deve essere intesa in senso soggettivo, come auto-organizzazione creata e gestita dal professionista senza vincoli di subordinazione, bensì in senso oggettivo, come esistenza di un apparato esterno alla persona del professionista e distinto da lui, frutto dell’organizzazione di beni e strumenti e/o di lavoro altrui. Pertanto il ricorso viene accolto e l’ufficio condannato al pagamento delle spese.